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El Principin, ossia Il Piccolo Principe di Saint-Exupéry, tradotto in chioggiotto

Un’iniziativa di Libreria Editrice Il Leggio in collaborazione con lo scrittore e “abitatore della lingua” Renzo Cremona per salvare il dialetto e affermarlo anche come lingua letteraria

Voler bene ad una lingua, salvarla dalla scomparsa evitandone l’impoverimento, rimetterla in circolo permettendole di dire cose diverse e di estendersi ad altri campi rispetto all’oralità, che è la forma e la casa di tutti i dialetti. Sono solo alcuni dei motivi che hanno portato la Libreria Editrice Il Leggio di Chioggia ad inaugurare una nuova collana di libri, dal titolo “Stravedamènti” in lingua locale. Non si tratta solo di tradurre in chioggiotto libri già celebri, ma di pubblicare anche dei testi originali, e non si tratta neanche solo di scritti perché le stesse opere potranno trovare un adattamento teatrale, come nel caso de El Principin su cui gli studenti delle Elementari e delle Medie dell’IC Chioggia 5 stanno già lavorando per una presentazione a fine anno. Un’operazione sulla lingua, dunque, un lavoro che può trovare diversi sbocchi, ma che pone al centro di tutto quel patrimonio culturale immateriale – appunto costituito dai dialetti – che sempre più si sta assottigliando lasciando intravedere il pericolo di un’imminente scomparsa. Ne abbiamo parlato con chi si è occupato della traduzione e fa parte del progetto, ossia lo scrittore e “abitatore della lingua”, Renzo Cremona, che alla sua città ha già dedicato diverse opere letterarie, Fossa Clodia (2015), Lingua Madre (2017) e recentemente la Grammatica chioggiotta, operazione enciclopedica che ha messo a disposizione di chiunque voglia utilizzare il dialetto chioggiotto, anche in forma scritta, una mole non indifferente di strutture, idiomatismi ed esempi.

Partiamo dalla Collana: Stravedamènti, che significa e perché parte proprio con il Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry ?

Renzo Cremona

Stravedamènti prende a simbolo quel particolarissimo fenomeno presente sulla laguna soprattutto dopo un temporale, che permette una visione nitidissima del paesaggio, incorporando anche elementi lontani e inattesi al contesto di Chioggia, come le Dolomiti. In poche parole il titolo della collana vuole essere la metafora di una visione che si spinga oltre l’orizzonte delle contingenze per potere cogliere alcuni frammenti di quello che nell’ambito culturale dell’isola è forse già presente ma non visibile. Per il Piccolo Principe, invece, abbiamo ritenuto che partire da uno dei testi più conosciuti al mondo fosse il giusto modo di collocare la collana nel suo ambito di pertinenza, ovvero quello di far parlare la città di Chioggia stessa nella propria lingua madre senza che intervenisse in primo piano l’individualità di un singolo autore, in questo modo conferendo a Stravedamènti l’apertura universale all’esterno che ne fa un progetto condivisibile con altri. Certo, se vogliamo pensare a dei destinatari ideali, va da sé che questi sono e devono essere innanzitutto coloro che il chioggiotto lo parlano e lo comprendono, e quindi la collana è creata nella città per la città, nell’ottica di un impegno ormai ultraquarantennale da parte dell’Editore di diffusione, conservazione e rinnovamento della cultura locale.

– Quindi El Principin si pone idealmente in continuità con i propositi della Grammatica, ossia dare rilevanza scritta ad una lingua parlata?

Chioggia dal Lusenzo

“Assolutamente sì. E non a caso io e l’Editore ci siamo impegnati ad inaugurare questo percorso con un testo letterario agevolmente riconvertibile in una forma teatrale, quella cioè che più di tutte mette in comunicazione scrittura e oralità. Il perché è presto detto: i dialetti (o meglio, le lingue locali) stanno vedendo proprio in questi decenni il loro canto del cigno, per cui ci si trova ora di fronte ad un bivio, e sarà di capitale importanza decidere in che direzione proseguire: ossia se la loro conservazione possa avvenire in una sorta di formalina all’interno di una teca destinata alle generazioni future in visita ad uno zoo linguistico oppure – eventualità molto più interessante –  come uno dei più solidi presupposti per farne uno strumento espressivo allargato anche ad esperienze non solo nazionali, ma anche globali. Cosa vogliamo fare? Perdere quest’occasione unica per dare nuova vita alla nostra lingua locale?”.

Tradurre un libro in chioggiotto è come tradurre in una qualsiasi altra lingua, o il dialetto ha bisogno di maggiori accorgimenti?

Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) è conosciuto soprattutto per essere stato l’autore de Il Piccolo Principe ad oggi tradotto in più di 500 lingue

“Ogni lavoro di traduzione resta sempre e comunque, checché se ne dica, un lavoro artigianale. Artigianale, intendiamoci, nel senso che la traduzione è un prodotto unico, non in serie, anche se non possiede l’originalità della creazione artistica, ma è pur sempre una ‘seconda opera’. La materia di cui è fatta la traduzione non è solo di natura lessicale e grammaticale, che pure ne sono gli elementi fondanti, ma è data dalla frequentazione di quello che è l’ambiente naturale di una lingua: i suoi testi, il modo in cui è parlata, quello che sceglie di dire e quello che preferisce dire altrimenti; insomma, i suoi idiomatismi. Tradurre, quindi, è ricreare il testo completamente pur cercando di non alterarlo neanche in minima parte. Dire ‘porta’ in italiano e dire ‘door’ in inglese, ‘twiĕ’ in cambogiano, ‘matu’ in inuit o ‘mén’ in cinese mandarino non è la stessa cosa. Quando si traduce un dialetto il problema si complica. Perché i dialetti sono in netta recessione rispetto a un secolo fa, e questo significa che hanno un bagaglio lessicale sempre più limitato perché eroso: termini che un tempo venivano abitualmente impiegati vengono sostituiti dal loro corrispondente italiano. Risultato? Si comincia a credere che il dialetto sia una lingua di serie B – o, peggio, una sottolingua o una lingua di sottosviluppati – che non dispone di quasi nessuna parola per potersi elevare dal cosiddetto terra-terra quotidiano, e questo perché gli si fa dire sempre meno. Noi i termini ce li avevamo e ce li avremmo ancora, se solo ci ricordassimo di usarli o avessimo un po’ di amor proprio che ci rendesse orgogliosi di usarli”.

Quindi conservare la lingua è quasi un modo di tutelare l’ambiente e la sua biodiversità. Nella salvaguardia della determinata specie, va salvato anche il modo in cui viene chiamata, nei diversi luoghi in cui è presente.

Chioggia – Corso del Popolo

“In un certo senso sì, ma c’è di più. Un qualsiasi linguista o storico della lingua confermerà che anche le cosiddette “lingue ufficiali” sono un prodotto nato completamente a tavolino seguendo degli iter molto simili tra loro. Penso a questo proposito in particolare, guardando all’Europa, agli stati balcanici che hanno visto oltre quattro secoli di dominazione turca: quando questa è finita, si è avviato dovunque un processo definito, con un brutto termine, di ‘purificazione’ mirato a ridurre, e per alcuni versi proprio ad estirpare, la presenza di forme straniere entrate nel tempo per sostituirle con vocaboli rintracciabili nel proprio lessico originario. Un processo di riappropriazione, se vogliamo definirlo così. E di ridefinizione di sé e della propria immagine. Perché questo è stato. Ora, tornando alla questione della vera o supposta povertà lessicale, va detto che ci sono moltissime lingue a questo mondo che non vengono chiamate dialetti e che possiedono una ricchezza inferiore a quella del chioggiotto, per le quali si è posto lo stesso problema quando si è cominciato a tradurre: come rendere quello che non abbiamo? La lingua non è quella cosa rigida e univoca che sembra essere quando la osserviamo dalle grammatiche normative: nella realtà dei fatti, le lingue sono entità vive e operanti su continui livelli di scambio, in particolare nei contesti di bilinguismo, trilinguismo o, come nel caso del dialetto, di vera e propria diglossia. In tutte queste situazioni accade che si prendano continuamente a prestito parole da un’altra lingua. Nel caso del chioggiotto è l’italiano, ma succede pure con termini inglesi, come rivelano frasi del tipo astu daunlodao el programa? e ricevano “forma locale”, venendo poi inserite all’interno di una sintassi spesso diversa da quella dell’originale”.

Mi chiedo in che modo una lingua marinara abbia saputo avvolgere e narrare il piccolo mondo di asteroide su cui vivono un bambino, tre vulcani e una rosa molto vanitosa. È una domanda banale, lo so, ma me la pongo spesso al contrario, quando voglio tradurre un aneddoto dal dialetto in italiano e mi accorgo che in italiano non suona bene o non fa ridere. Come te la sei cavata in queste circostanze?

Uno dei disegni originali Antoine de Saint-Exupéry

Quello che non volevo che succedesse con il principino chioggiotto era che suonasse estraneo, appunto ‘tradotto’. Non è difficile prendere parole e manipolarle come se fossero equivalenti l’una all’altra; il problema è che equivalenti non lo sono mai del tutto, e soprattutto non lo sono gli usi che se ne fanno. Può una lingua marinara parlare di asteroidi e di roseti? Certo che sì, se no saremmo condannati a parlare solo di quello che ci circonda. Gli inuit hanno un numero maggiore rispetto a noi di termini riguardanti la neve e i fenomeni a questa collegati solo perché nel loro ambiente naturale la neve è una presenza quasi costante e determinante: sapere distinguere tra uno strato di neve sottile e uno ghiacciato, tra del nevischio e una tormenta diventa una questione di vita e di morte in moltissimi casi. Se il chioggiotto ha tanti termini per i pesci è perché nel suo ambiente naturale i pesci sono numerosi e rivestono un’importanza tutt’altro che marginale. Ma tutte queste considerazioni non sono la dimostrazione che vediamo e concepiamo il mondo in modi del tutto diversi; i nostri mondi sono “arredati” in maniera diversa, possono avere colori diversi, sapori diversi, suoni diversi, ma apparteniamo pur sempre alla stessa specie animale che, certo, ha prospettive anche differenti a seconda dei luoghi e dei tempi, ma raramente del tutto divergenti. Detto questo, io sono il primo a sostenere la bellezza di tutte queste divergenze e a trovarle uno degli aspetti più affascinanti di ciascuna lingua. Le abitudini ad essere e a fare non vanno però scambiate con essenze o identità fisse. Il dinamismo è alla base di qualsiasi evoluzione. La lingua è indubbiamente il materiale del pensiero, senza la quale questo non può determinarsi e dalla quale è orientato all’interno di una certa prospettiva, ma quando si traduce ci sono sempre buoni margini di condivisione e di avvicinamento tra un campo e l’altro

 Il progetto Stravedamènti non prevede solo “traduzioni” di libri celebri, ma ci sarà la pubblicazione di testi creati ad hoc. Si può già sapere qualcosa, nell’uno e nell’altro caso?

 “Sì oltre a El Principin ci saranno altre traduzioni, tra le quali posso solo anticipare Diaro di un pazzo di Lu Xun, che ho tradotto direttamente dall’originale del 1918 ed è diventato per l’occasione I savariamènti de un mato. Quanto agli altri testi, ci sarà spazio anche per creazioni originali, peraltro già in cantiere, e spero che questo funga da stimolo per chiunque voglia fare del dialetto uno strumento espressivo contemporaneo e aperto alla sperimentazione, in cui la tradizione possa trasformarsi in un vero e proprio trampolino verso i tempi moderni”.

 

 

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