L’uomo la laguna il mare: la pesca
A Chioggia esistono almeno una cinquantina di tipologie di pesca: in mare, in laguna, attiva e passiva, di giorno o di notte, con le reti, con i cogoli e innumerevoli altri strumenti. Niente di strano per un borgo marinaro che della pesca ha fatto, per secoli, la principale attività.
Esiste un detto secondo il quale “I pescatori chioggiotti non sanno nuotare perché non naufragano mai”
Un mestiere difficile, faticoso, rischioso per le condizioni in cui viene svolto, perché il mare non è sempre amico.
Anche se la pesca a Chioggia, nella sua prima fase, era esclusivamente in laguna. Non era l’attività principale, veniva praticata nelle forme della sussistenza, non è esistita da subito una visione industriale dell’attività, anzi è stata raggiunta molto tardi perché il pescatore chioggiotto è rimasto un individualista, disponibile e condividere progetti e strumenti solo con un ristretto clan legato da vincoli di parentela.
La vera pesca in mare si svilupperà a partire dal XVI secolo, quando con l’affievolirsi della produzione del sale – il Sal Clugiae, per secoli l’oro bianco della Serenissima Repubblica – nascerà l’esigenza di sviluppare attività di supporto come la cantieristica che a sua volta porterà alla realizzazione dei bragozzi, agili imbarcazioni dal fondo piatto e un importante timone, che funzionava anche da chiglia, che consentiva la navigazione nei grandi spazi aperti.
Agli inizi del Novecento, nel momento della massima espansione della pesca in mare, la flotta sfiorava le mille unità. Oltre ai bragozzi, una serie di altre imbarcazioni, bragagna, batelucio, batèlo a pisso, sàndalo, utilizzate a seconda delle varie tipologie di pesca, componevano la marineria di Chioggia.
Alla pari di altre attività la pesca aveva una sua organizzazione di tipo corporativo. Come i calafati, i carpentieri, i caleghèri i pescatori erano riuniti in una scuola intitolata a Sant’Andrea, santo protettore, con un proprio statuto, la mariègola, che aveva lo scopo di tutela di un monopolio professionale, l’attività poteva essere esercitata solo se associati alla scuola.
E’ proprio dalla mariègola che si ottengono oggi le principali informazioni su questa attività, alla data del 1784 – per esempio – risultano iscritti 3344 pescatori, che formavano gli equipaggi di 152 tartane grandi, di 72 tartane mezzane e di 18 pièleghi. Primi in assoluto per quanto riguarda esperienza, coraggio, conoscenza dell’ambiente lagunare e di quello marino i pescatori di Chioggia sono i veri padroni dell’alto Adriatico.
Le loro imbarcazioni si spingevano ben oltre il Golfo di Gorizia per raggiungere la Dalmazia e l’Istria. Un rapporto sulla situazione della pesca in mare di Levi Morenos del 1916 attesta la presenza di pescherecci chioggiotti anche lungo le coste albanesi. Le tensioni internazionali tra gli stati, come del resto le guerre, tra Ottocento e Novecento sono state le principali cause di arresto dell’attività insieme a alle modeste quantità di pesce richieste dal mercato italiano. Nel 1934 In Italia non si arrivava ai 4 chili l’anno pro capite. Si raggiungevano, invece, gli 8 in Germania, addirittura 12 in Spagna, mentre l’Inghilterra arrivava a 17, la Danimarca a 23, la Norvegia a 30. Sono questi gli anni in cui il regime fascista lancia le politiche autarchiche per l’autonomia alimentare attraverso la propaganda, ma anche attraverso l’istituzione di sagre, come quella del pesce.
A Chioggia esiste dal 1938, la grande festa anche per il pescatore.
Del resto gran parte dell’anno la trascorre in mare.
A casa è sicuramente per le più importanti feste religiose: Natale, Pasqua, i Santi patroni Felice e Fortunato, che si festeggiano l’11 di giugno, la ciosà, ossia il tempo della preparazione delle attrezzature prima di un nuovo imbarco.
Sono questi i giorni di baldoria in cui il pescatore si paga abbondantemente dei lunghi periodi passati, delle privazioni sofferte, della lontananza dalla moglie e dai figli. Poche ore, intensissime, durante le quali si brucia letteralmente il significato della vita. Alla fine la malinconia. Il pescatore pensa che domani tornerà nell’infinito elemento forse per esserne inghiottito, pensa che tra breve ricomincerà la lunga quaresima della sua esistenza e gli par logico ed onesto approfittare di questi brevi istanti di gioia che gli concedono gli ozi annuali.
Più che la casa, di solito insufficiente tanto che gran parte delle funzioni quotidiane, compresi pranzo e cena, si svolgono all’aperto finché la stagione lo consente, è l’osteria il luogo dell’aggregazione sociale dove il pescatore incontra i colleghi insieme a qualche raro artista come viene chiamato chi lavora a terra, in primo luogo gli artigiani.
Nel 1931 i battelli a motore di Chioggia erano solo 30.
Nello stesso anno Ancora ne aveva già 174. Nonostante questo – secondo L’Industria Nazionale, una rivista dell’epoca – Chioggia è una città che lancia sul mercato 4 milioni di chili di pesce all’anno.
Non mancarono innovazioni di carattere tecnologico come la rete da pesca Farina dal nome del veneto che l’aveva ideata e che avrebbe dovuto consentire catture più abbondanti.
Le decisione di affidarne la fabbricazione a maestranze artigianali venete rappresenta il primo segnale di un indotto della pesca nel territorio che si completerà con la nascita dell’industria conserviera.
Il prodotto viene “trattato” attraverso la salagione, con l’affumicamento o in confezioni chiuse ermeticamente per prodotto sott’olio.
Solo dopo la II Guerra Mondiale in Alto Adriatico la meccanizzazione della pesca trovò effettivo compimento. Il Compartimento Marittimo di Chioggia vide aumentare, tra il 1951 e il 1963, il numero delle imbarcazioni motorizzate da 299 a 776 e contestualmente l’ampliarsi delle aree di mare in cui pescare e la possibilità di trainare attrezzi più pesanti.
Ma il pescatore è rimasto un lavoro duro, fatto di privazioni e di grandi fatiche, ma anche un forma di identità perché il chioggiotto appartiene al mare, ne è il suo custode.